Lettera sulla civiltà

 

di ADRIANO SOFRI

 

GENTILE presidente Berlusconi, l'ho appena sentito al telegiornale parlare della superiorità della nostra civiltà su quella islamica, e della singolare coincidenza fra mobilitazione antiglobale e assalto terrorista. Commento queste frasi. È scontato che sia in disaccordo con lei. Sono anche un po' d'accordo: mi stia a sentire.

Cominciamo dalla seconda frase, che lei non può pensare sul serio. La stessa espressione "singolare coincidenza" non andrebbe usata, fa temere una sospettosità un po' tetra. Immagino che lei sia stato colpito, e questo è senz'altro comprensibile, dalla notizia sul progetto di attentato contro Bush (e dunque gli altri, e lei) a Genova: a ripensarci dopo Manhattan, c'è da rabbrividire.

MA C'È da rabbrividire anche per i manifestanti neo-global. Minaccia fisica a parte -per modo di dire - il loro movimento sarebbe stato schiacciato dall'assalto.

L'aggettivo "singolare" suggerisce una corresponsabilità dei manifestanti coi Grandi Terroristi, semplicemente assurda. Lei non deve cedere a un pensiero simile, per un'altra ragione: che alla "nostra civiltà" -veniamo così all'altro concetto piccante da lei espresso - appartiene decisivamente l'esistenza libera di un dissenso come quello degli obiettori alle istituzioni globali. Questa critica (indebita solo quando eccede gli articoli del codice penale, e in proporzione rigorosa con la violazione) non può essere riguardata come una fattispecie, subdola o "oggettiva", comunque "singolare", di intelligenza col nemico. Dunque, veniamo alla "superiorità della nostra civiltà". C'è anche qui un aggettivo indifendibile nella sua formulazione, quel confronto con la civiltà "islamica". Che non esiste. Non in questo senso, almeno. Se uno lo dice, in questo contesto, contraddice il connotato più saggio e meno ipocrita della risposta finora data dallo stesso governo americano: non è un confronto di civiltà, il nemico non è l'Islam. Meglio abbandonare presto quell'aggettivo: anche per passare alla ben più coinvolgente questione della "superiorità". Qui l'ipocrisia entra molto. Infatti la persuasione di una "superiorità" -uso per ora la sua parola - della propria civiltà è pressoché universale: ma una delle differenze essenziali sta proprio nella scelta di dichiararla o di rinunciare a quel nome. La verità è che noi per lo più pensiamo, come lei -anch'io lo penso, passando sopra a certi dettagli - che il modo della nostra vita associata sia incomparabilmente preferibile a quello del resto del mondo: islamico o no, anche africano non musulmano, anche cinese, anche indiano. Però noi tradiamo questa convinzione (non la prenda per una capziosità fatua) quando proclamiamo una nostra "superiorità". Gliene suggerisco due ragioni principali, che non hanno a che fare con l'ipocrisia. La prima. Noi possiamo essere più laici, cioè, precisamente, più consapevoli dei nostri errori e delle nostre colpe. Meno giovani, anche: meno avventati ed eccitati. Non abbiamo voglia di guerre di religione, per sazietà: ci siamo sterminati nelle nostre intestine guerre di religione fino all'altro ieri. Non abbiamo neanche tanta voglia di guerre: ci siamo sterminati nelle nostre guerre totalitarie fino a ieri. Non siamo più così virili: ci siamo effeminati, compimento (ancora parzialissimo) e svolta insieme dell'intera nostra storia culturale. Abbiamo "dato" il voto alle donne per la prima volta, se non sbaglio, in Norvegia nel 1905, e in Italia nel 1946. Appena ieri. Ancora di più abbiamo aspettato a rassegnarci a che le donne decidessero del proprio abbigliamento, della libera uscita da casa, del controllo sul proprio corpo e sulla propria maternità: le gerarchie cattoliche vi si oppongono ancora, le leggi vacillano ancora, e ancora vacilliamo noi personalmente. Queste recentissime novità sono il cuore della nostra sperimentale e azzardata "superiorità" rispetto ad altri luoghi del mondo, nei quali principii e costumi opposti non "sopravvivono" come prosecuzioni di culture tradizionali, ma emergono di bel nuovo come reazioni alla modernità, e allo spettacolo del nostro proprio modo di vita. In questo sta un connotato determinante della loro "inferiorità" (uso ancora queste parole, per buttarle via subito): in quei luoghi infatti la continuità di culture tradizionali è drasticamente ridotta, e soverchiata da una forma peculiare e triste di modernità. Una modernità guardata, per così dire, dall'altra parte: dal lato opposto al senso unico impresso da qualche secolo alla storia del mondo dal mirabile slancio della scienza e della tecnica occidentali, dal lato dei consumi proposti e negati, dal lato capovolto del progresso. Lungo questa strada c'è, inevitabile, lo scontro frontale. Anche le rispettive tentazioni delle nostre inimicizie sono diverse. Noi siamo insidiati dal disprezzo e dalla paura: per un mondo di folle anonime, esaltate, maschili. Loro dall'odio e dalla vendetta. Disprezzo e paura rendono imbelli; odio e vendetta rendono intrepidi. La nostra vita costa cara, la loro è senza valore, salvo quando venga scagliata contro di noi. Ci assaltano con una cintura di dinamite o con un nostro aereo e un loro temperino. Noi per reagire mobilitiamo la più immane potenza dei cieli della terra e delle acque. Stiamo gli uni agli altri in proporzione inversa di numero, di potenza e di impotenza. Della nostra lenta e drammatica maturazione fa parte l'idea di una relatività delle culture. Che non ce ne sia una sola, ma molte, e mutuamente degne di rispetto: non solo per principio, ma per effettivo merito, per autentica ricchezza delle diversità. Com'è cresciuta questa idea di tolleranza e di curiosità rispettosa? Sulla scia della sopraffazione di altre culture, di altre genti, di altri mondi. L'antropologia, l'etnologia hanno accompagnato l'espansione della nostra cultura come l'impresario funebre segue il reggimento. Nello stesso giorno in cui lei nominava la superiorità, un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere se la prendeva senz'altro con la relatività culturale. Questione più complicata, purtroppo, perché non si tratta di un aut aut, ma di una misura. Anche la considerazione della relatività culturale è relativa: non è un gioco di parole. Esemplifico subito, con esempi collaudati. Se non riconosco la misura, il limite, arrivo (ingenuamente, o ottusamente) a proporre che infibulazioni, clitoridectomie eccetera, pratiche preislamiche assai diffuse e anzi anch'esse riattizzate, vengano eseguite presso le nostre Asl, con vantaggio dell'accuratezza, dell'igiene e dell'anestesia. Chiamai "modello di sir Phileas Fogg" il criterio -duttile - da seguire. Si ricorda, è nel Giro del mondo in ottanta giorni. C'è il rogo tradizionale del defunto maragià, il suttee, delizia degli studi etnologici, e la giovane vedova stordita per esservi bruciata viva: al diavolo il relativismo culturale, astuzie, corruzione e botte da orbi, tutto è benvenuto per rapire la bella Auda alla orrenda catasta, portarla in salvo a Londra (e, caso mai, sposarla). Un senso appena decente del confine del relativismo culturale avrebbe imposto al mondo di fare i conti con l'esperimento Taliban, ben prima dell'assalto alle Torri. Perché l'altra conferma della natura tradizionalista ma non tradizionale (così come islamista e non islamica), non tradizionale dunque, né "medievale", ma perversamente moderna, di barbarie come lo Stato-non Stato afgano, sta nel grande mondo assaggiato da quegli scolari coranici e dai loro magnati arabi, foto ricordo di Ben Laden a Stoccolma, ma soprattutto nella violenza estrema imposta alle donne afgane. Non schiave assuefatte tradizionalmente alla clausura domiciliare, ma persone già istruite, libere, vive, frequentatrici di scuole e di luoghi di lavoro, con un viso e delle unghie curate, capaci di ridere e di cantare, catturate in un agguato improvviso e recluse nel burqa e nelle mura. La tradizione dei mullah di Kabul è solo questo: la cattura di donne che erano scappate dal recinto del bestiame, già da tanto tempo. Essendo questo il centro della questione, una partita strategica si gioca in Iran, il paese in cui più strenua è la guerra minuta che donne esperte di libertà conducono contro i loro picchiatori dalla barba regolamentare. Così. Molti italiani, molti europei, hanno nostalgia di identità assolute e imputano al relativismo culturale l'indegnità, ai loro occhi, di dare in affitto a fedeli musulmani un garage in cui pregare Dio. Non è passato molto tempo da quando in odio al relativismo culturale a Torino non si affittava a meridionali: di giorno in fabbrica, di notte chissà -come gli immigrati extraeuropei di oggi. In compenso, i codici erano così rispettosi della relatività culturale da contemplare il delitto d'onore, e da fare della mafia un attraente fenomeno antropologico. E allora, perché vietarsi la parola "superiorità"? L'ho detto: perché le cose cui più teniamo le abbiamo appena conquistate, e ancora poco, e ancora a rischio, e l'ombra del nostro passato è ancora così corta da fare dei migliori di noi dei pellegrini penitenti. E perché dunque non vogliamo offendere altri. Non possiamo chiamare superiore un nostro modo di vita, senza chiamare inferiori altri. Possiamo proporre, non forzare. Salva quella questione di misura: dove intervenga la legittima difesa, e l'obbligo del soccorso. Lei, Berlusconi, ha inasprito dopo Genova il suo ripudio delle critiche all'andamento del globo. Si capisce, con quella festa guastata, ma è un peccato. Io penso che un terzomondismo ripescato non sia il futuro di quelle critiche, e tanto meno una loro "singolare coincidenza" di quinte colonne. Esse spingono a una riconversione qui del nostro modo di vita, senza la quale nessun credito sul destino del mondo ci sarà riconosciuto. Una riconversione che freni la consunzione della terra, e che riduca l'ostentazione e la venerazione della ricchezza. Di più: molta parte del mondo senza scarpe freme per scagliarsi a testa bassa contro i grattacieli del mondo ricco non in nome della povertà, ma per disprezzo dell'economia, per così dire. Agli occhi di quelle folle la povertà si trasfigura in idealismo ebbro: ciò che aborrono come una bestemmia è il sontuoso presepio di manichini e mannequin delle vetrine di New York o dei canali televisivi. In questo sguardo rabbioso e frustrato c'è forse un talento che dovremmo fermarci a considerare, per guardare meglio a noi stessi. Per tenerci cara la nostra libertà, ma diventare più discreti e attenti, per così dire. Per non dare scandalo. Non voglio usurpare il senso evangelico, ma lì non si dice di non fare qualcosa, si dice di non dare scandalo. Non di non essere attaccati al proprio credo civile, ma di non vantarne la superiorità in faccia al mondo. Il mondo è sensibile e permaloso. In certi momenti è intrattabile. Ma questo dello scandalo è già un nuovo argomento, e la saluto.

Fonte: Repubblica 28 settembre 2001